logo

Progetti in corso
TERRA IN TRANCE

La Maternità

 

Oumou non sapeva molto dell’Europa quando viveva nel suo villaggio in Africa. Tutti i racconti che circolavano tra le donne erano legati al “Parisien”. Così era chiamato l’uomo che aveva visto Parigi. Racconti e leggende su quella città grande, quel mondo irraggiungibile e diverso. Storie dorate. Fantasie e strambi racconti per serate conviviali. Il quotidiano era altro: obbedienza alla famiglia, un debito da saldare per la terra che si coltivava, un marito che non si sceglieva. Superati da un poco i 25 anni, Oumou sembra aver vissuto cento vite in meno di un decennio. Alta, slanciata, elegante e regale indossa i tessuti e i vestiti dai disegni ivoriani, fabbricati da un amico che vive vicino ad Acqui, Piemonte, dove da quasi tre anni è approdata dalla sua odissea, insieme al figlioletto. Oumou è un nome d’origine araba diffuso in Africa Occidentale; il suo significato rimanda alla Madre, a chi si prende cura e alleva. La decisione del nome è importante nell’Islam. Per il profeta occorre scegliere bei nomi perché nel giorno della Resurrezione “sarete chiamati col vostro nome e col nome dei vostri padri”. Dare un nome che abbia un senso significa indicare al neonato una direzione, un ideale da raggiungere. Oumou racconterà alla fine che la forza per andare avanti oltre tutte le violenze e le sofferenze è stato proprio il figlio, il piccolo Issif: lei si è battuta per lui, l’ha protetto e allevato portandolo via da quel mondo brutale che ha conosciuto. Ha fatto la Oumou, la Madre. “Avevo 13 anni quando mi hanno fatto sposare, lui forse 50. Ero la seconda moglie. Dovevo sposarlo, non si chiede ad una ragazza cosa vuole. Io non ero mai andata a scuola. Sapevo che dovevo farlo, mio padre conosceva la famiglia dello sposo e utilizzavamo la loro terra. Un giovedì ci fu la cerimonia e da quella sera fui chiusa nella sua casa, nutrita solo con acqua bollita e riso. Devi perdere le forze così non ti ribelli all’uomo. E se poi ricevi delle botte anche tua madre ti dice che devi fare solo quello che dice il marito. C’era già una moglie che aveva figlie femmine, se continui a fare femmine non è bene, non fai il tuo dovere…poi nacque il mio primo figlio, che fu chiamato Mohammad, come il Profeta, si usa così per il primogenito. Ma si ammalò di meningite e morì… Poi nacque il secondo figlio Issif. E quando cominciò a camminare mio marito morì. Da quel momento cominciano le mie sofferenze. Il fratello, che aveva tre mogli, iniziò a picchiarmi e pretendermi, non mi dava da mangiare. Io dovevo lavorare e sottomettermi, diceva che era colpa mia se mio marito era morto. Io cercavo di guadagnare qualcosa, misi da parte un poco di soldi e riuscii a scappare, dopo che una delle figlie della prima moglie aveva tentato di uccidere Issif. Dei vicini mi aiutarono per fuggire, mi misero su di un camion con Issif. Per un mese aiutai in casa del camionista, ma un giorno vidi che il fratello di mio marito arrivò fin lì. Riesco a capire di essere parte di un debito che aveva fatto mio padre con la famiglia di mio marito per l’utilizzo dei campi. Decido allontanarmi fino in Niger, a Niamey. Durante il viaggio viene concordato con una donna che io e Issif staremo da lei e l’aiuteremo. La mattina sto con la donna, ma la notte arriva suo fratello che mi vuol prendere e mi picchia. Tre settimane sono andata avanti così e poi prendo il bambino e fuggo verso Agadez, nel Sahara. Fermo una macchina e chiedo di portarmi verso il Sahara con il bambino. Non hai bagagli? Mi chiede l’uomo. Gli racconto la mia fuga e mi porta alla stazione di Agadez dove spero di trovare un lavoro e qualcosa da mangiare. Passo la notte e l’uomo torna la mattina e si mette d’accordo per un viaggio in camion nel deserto che dura giorni e giorni. Arrivati in Libia ci lascia per strada. Non avevo niente, ero disperata. Mi si avvicina una donna, una del Mali. Parlava bambara. Si racconta che i maliani siano ospitali e gentili. Io mi fido e le racconto la nostra fuga. Mi dice di andare da lei. C’erano altre quattro donne: era un luogo dove venivano gli uomini per stare con le ragazze. Io non avevo scelta, lì si mangiava. Finché una sera sentimmo degli spari, erano arabi con le armi che entrarono e spararono a Mariana, la donna maliana, la ferirono ad un piede, noi tutte scappammo. Mentre fuggivamo sulla strada un uomo in auto prende Issif e allora l’imploro di prendere anche me. Mi fa salire e ci porta in una casa dove mi violenta e ci tiene chiusi per tre giorni e tre notti. Poi ci viene a prendere e ci porta al mare. Ci sono tante persone, non conosco nessuno. Ci sono delle barche e saliamo tutti. Siamo sul mare. Passano le ore, il sole cresce dall’acqua e poi scende. E alla sera vediamo una grande nave. Era della Marina Militare italiana. Saliamo e ci vestono, ci danno persino delle scarpe. Ci danno da bere e da mangiare. Sbarchiamo in Sicilia, la data me la ricordo perché l’hanno scritta sui miei fogli: 17 novembre 2016. Dopo ci trasferiscono in bus e arriviamo a Settimo Torinese, il centro più grande. Era una sabato quando siamo arrivati e il lunedì dicono che ci sono posti ad Acqui. E se Dio vuole ho incontrato loro di CrescereInsieme. Adesso viviamo in questa casa in cinque donne, due somale e 3 ivoriane, e tre bambini. La mattina mi sveglio per accompagnare Issif a scuola e la sera lo vado a riprendere. Faccio volontariato alla mensa dei poveri mercoledì e sabato, poi c’è il tirocinio alla piadineria, le pulizie al centro di Canelli. A volte faccio ancora le treccine, anche per delle italiane. E poi la mia passione: il teatro e il ballo. Sono molto orgogliosa e contenta. Ero così emozionata. Qui tante volte mi fanno dei complimenti. I complimenti li fanno anche a Issif. Non ho sentito razzismo, anche se la mia pelle non è poi molto nera. Siamo tutti uguali, donne, uomini, più o meno scuri. La mia passione è il ballo, la danza. Mi piace la musica julà con i tamburi, come ai matrimoni. Al centro sociale la prima volta quando ho ballato ho capito: c’era gioia negli occhi, nei miei e in quella degli altri che ballavano. A casa ascoltiamo tanta musica, anche italiana. Il canto è gioia di vivere. C’è una canzone tradizionale in Costa d’Avorio, in lingua dioula, mi piace tanto. Una madre canta al figlio: non sarò io a mostrarti le cose malvagie, ti parlerò solo delle cose positive… Qui in Italia ho scoperto me stessa. Io tutti i giorni ringrazio per questo: siamo stati accolti, dopo tre giorni Issif era già all’asilo. Ha sofferto tanto. Io gli dico che ora è al sicuro. Ora preferisco che faccia solo il bambino. È stato solo lui a darmi la forza di andare avanti. Per Oumou il femminile di uguale si declina così, con la forza della maternità. Battersi per il figlio. Ora sogno di stare bene come adesso. Non è come prima. Ora ho coraggio. Ho imparato tante cose, con i laboratori teatrali, la scuola, so scrivere il mio nome, l’ho scoperto tutto qui, in Italia. Ho qualche notizia della mia famiglia, di mio figlio Mohammed, dei miei fratelli. Ho capito che è importante battersi per se stesse. Qui gli uomini e le donne sono uguali. Le donne possono fare qualsiasi lavoro e andare a scuola. Solo così si capiscono i propri diritti. E la mamma e il papà si battono per il futuro dei figli. La scultura Bamana qua presentata è una Maternità Jomooni, usata durante i riti Jo e Gwan, legati ai riti della fertilità nel sud del Mali. Raffigura una madre col suo bimbo, un soggetto quotidiano e reale, vicino all’esperienza di ognuno di noi nel mondo. È alta 1,30 mt e pesa 19 kg. Ascoltiamo insieme le musiche di Rokia Traoré, ambasciatrice dell’UNHCR, cantante maliana che riscopre la lingua Bamabara e che dichiara che “L’artista rappresenta la società; non importa si tratti di un musicista o di un regista, può veicolare contenuti sociali, far riflettere su questo o quel tema, può stimolare un dibattito”.

 

Scopri Terra in Trance

 
www.iodonna.it – Intervista alla cantante Rokia Traore

Contatti

Associazione Culturale Techne
Viale Duca D'Aosta, 30
25121 Brescia
Tel 030 2781040
info@associazioneculturaletechne.it